lunedì 30 novembre 2009

The moon is the only light we see.

Sounds of laughter shades of life
are ringing through my open ears
exciting and inviting me
Limitless undying love which
shines around me like a million suns
It calls me on and on across the universe.

(Across the Universe, The Beatles)

I’ll walk to the depths of the deepest dark forest,
Where the people are many and their hands are all empty
Where the pellets of poison are flooding their waters,
Where the home in the valley meets the damp dirty prison.

(A hard rain's gonna fall, Bob Dylan)

Chiara cammina sul ciottolato bagnato di Corso Vittorio Emanuele, su cui si riflettono i neon brillanti delle vetrine e le luci natalizie appese come liane da una parte all’altra degli edifici. Cammina lentamente stando ben attenta a non pestarne nessuno. Sono così fragili. Tiene il conto dei nomi che legge. Luis Vitton, Salvatore Ferragamo, Giorgio Armani, Mark Jacobs, Dolce & Gabbana, Burberry, Chanel, Valentino, Dior, Prada, Max Mara, Zegna, Cavalli, Ralph Lauren. Sono tante le insegne riflesse, colorate e sfarzose, quasi, se non più di quelle reali sopra le vetrine dei negozi. Fa freddo, siamo alle porte dell’inverno. Chiara è avvolta in una grande sciarpa di lana e ascolta la sua musica continuando questa strana danza tra un mattoncino e l’altro, tra una luce e l’altra. Ha il naso freddo e ogni tanto tira su. Le mani nelle tasche felpate del cappottino nero e i jeans scuri bagnati in fondo. Come succede sempre le parole le escono da sole, o meglio, il film inizia. E’ sempre così. Quando cammina con la musica nelle orecchie questa diventa automaticamente colonna sonora del suo film e le persone attorno a lei attori e attrici che interpretano la loro parte. Allora vede due ragazzi baciarsi sulla strada, una signora che legge un libro su un autobus che passa veloce, un uomo in giacca e cravatta che sembra riflettere sui massimi sistemi che governano l’universo tanto è serio e in un attimo diventano i protagonisti di tre storie diverse. Storie brevi che lei fa durare nella sua mente per minuti interi, il tempo di una canzone, poi via, li lascia tornare alle loro vite. Non sottovalutare il potere infinito dell’immaginazione e non perderlo crescendo, questa è la sua legge. Perché non c’è niente di più dolce e preciso delle nostre fantasie. Ogni tanto si ritrova a fissare chi cammina davanti a lei e prova ad immaginare il suo volto, la sua storia. Allora aumenta il passo e non se lo lascia sfuggire fino a che superatolo gli lancia un’occhiata da dietro la sciarpa e decide se la storia che ha creato è giusta per lui o meno. Riprende allora a camminare, a seguire le luci e le persone. Luci e persone. Ad un certo punto si ferma e si toglie le cuffie dalle orecchie perché qualcosa l’ha attratta. E’ una musica leggera, lontana,ma di un poetico indescrivibile. Segue il suono sotto un portico,poi sotto un altro, gira un angolo, il suono si alza. Sembrano mille violini, uniti insieme, sembra il suono che precede un trionfo, sembra un orchestra, un concerto di musica classica. Non sa cosa aspettarsi e accelera il passo. La strada si allarga in una piccola piazza merlata di negozietti illuminati e al centro, magia. Non è un orchestra, ne tantomeno una musica registrata di qualche negozio. Si ferma attonita e si sposta la sciarpa dalla bocca. Respira lentamente e si avvicina al centro della piazza a piccoli passi. Sono quatro ragazzi, la carnagione scura, i capelli arruffati e strumenti musicali consumati dal tempo in mano. Lasciano andare nella notte suoni celestiali, li lanciano in aria come folate di vento, con gesti veloci ma dolci. Non avranno più di venti trent’anni, una chitarra acustica, una fisarmonica e due violini. Suonano con un sorriso mai visto prima un valzer di Mozart. Ma è un valzer che sa di mille altre cose. Sa di viaggi infiniti, di avventure. Sa dei suoni di tutto il mondo. Sa di sitar indiano suonato in una giornata di caldo afoso, sa di fisarmonica russa in un bar che puzza di vodka, sa di chitarra suonata nella primavera di Marrakesch, sa di sabbia e di acqua salata, di vento e fumo. Sa di montagne innevate e lunghe vesti di lana lavorata, di notti stellate e di fiumi marroni, di città divorate dall’asfalto e di campagne verdi e prosperose, di immensi campi di fiori e di cure pianure di steppa. Suonano con l’intensità di eroi che combattono, lasciando oltre che le note sentimenti intatti, forti, inarrivabili. Tutti questi suoni sono uniti dal sorriso che non si scioglie dai loro volti e li rende magici.
Sono giovani immigrati. Che poi immigrati è la parola più sbagliata. Perché per tutti luoghi che hanno girato sono più viaggiatori. Sono loro, i nuovi Ulisse, i nuovi Sinbad. Hanno attraversato mari infiniti su rottami a motore con poco più che un sacchetto con dentro i loro averi. Sono pieni di storie da raccontare, sono compagni di ventura senza una meta, o forse, con l’unica meta dell’uomo, casa. Li chiamano in molti modi spregevoli, ma una volta sarebbero stati chiamati avventurieri. Chiara li chiama tennisti. Ai loro piedi fodere da tennis raccolgono le monete che persone di buon cuore lasciano loro, le stesse fodere nella quali nascondono i violini per sfuggire alla polizia. Per la maggior parte delle persone non esistono, sono solo una scocciatura ai loro occhi pieni di purezza, senso di giustizia e civiltà. Sono piccoli gruppi, ensemble di quattro cinque elementi. Hanno sulle dita i calli di chi suona da una vita, e di chi non ha mai preso una sola lezione di musica. Hanno imparato ad orecchio le grandi sinfonie, le hanno mescolate ai suoni dei paesi che hanno girato e le ripropongono alla massa stressata dei passanti nelle grandi città.
Chiara è estasiata. Da qualche minuto è ferma, appoggiata ad un lampione della piazza persa in quella musica così vera e avvolgente. Nella sua testa passano le immagini di tutto il mondo, e comincia a viaggiare in silenzio, gli occhi fissi sui cinque giovani artisti. E’ in modo molto particolare e insolito sconvolta. Com’è possibile che da una condizione così umile, bassa, povera possa uscire qualcosa di così bello? E perché questo la turba tanto? La società in cui vive è così malata da aver prodotto l’idea dominante che le qualità di un uomo siano determinate dalla suo status? A quanto pare si perché anche non volendo, prova pietà per loro. In minima parte è vero, il resto è solo sentita ammirazione, ma c’è. C’è quel sottile imbarazzo di chi ha di più di un altro in termini materiali. Quell’imbarazzo che non se ne va anche di fronte ad una dimostrazione di superiorità psicologica dell’altro. Rimane sempre. Perché è insito nella nostra mentalità occidentale che avere di più significa potere di più ad ogni livello. Senza sfumature. Chiara non ci sta. Vuole sconfiggere quell’impostazione di base che la società impone. Sa come funzionano le cose, lo vede in quel preciso istante. C’è chi si ferma ad ascoltare la musica e se ne va indifferente, chi guarda con disprezzo e non si ferma, chi lascia una moneta e si complimenta con i suonatori. Così nella vita. C’è chi la subisce senza imporsi, chi la percorre senza badare agli altri, chi interviene a decidere la propria strada non scegliendo sempre l’alternativa più semplice. Chiara sente dentro un urgenza di conoscere, di non limitarsi al suo campo visivo. Le cose da conoscere, da sperimentare, da toccare con mano o semplicemente da immaginare sono infinite, perché ridimensionarsi allora? Quanto possiamo contenere in noi del mondo? Quanto di tutto ciò che c'è possiamo assimilare? Chiara si promette adesso che farà tutto il possibile per assorbire il massimo di tutto, non vuole essere un indifferente. Non vuole essere un’ombra, un passante sulla terra. Non vuole assolutamente essere come quei passanti in grado solo di disprezzare. E qui cambia tutto, in un attimo. Ci sono determinati momenti nella vita di ognuno di noi in cui avvengono cambiamenti apocalittici. Qualcosa anche di piccolo fa scattare un meccanismo strano e ancestrale insito da sempre nella natura dell’ uomo. Una presa di coscienza. Per Chiara è questo il momento. Coglie il significato più delicato, meno superficiale della situazione. Coglie la disparità di condizione tra persone ma la sente come un valore aggiunto. Purtroppo o per fortuna questo cambiamento è una cosa personale, individuale che quindi non mette al pari le persone. La diversità è premiata. Non tutti cambiano nello stesso momento, non tutti cambiano per le stesse ragioni, non tutti i cambiamenti portano ad una conclusione comune. Nessuno assomiglia al se stesso di prima ne a nessun altra persona. È il momento in cui si ferma una vera, matura coscienza di se e una concezione personale del mondo. Questa è la visione che rimarrà per tutta la vita, modificata qua e là dalle esperienze che verranno, ma la base sarà sempre la stessa. Questo è il nodo centrale della crescita, il fatto che è individuale al massimo, è unica e propria in ogni sua sfaccettatura.

Giacomo.

venerdì 27 novembre 2009

Questa croce appesa al muro.

La Croce è un Simbolo, il primo Vero emblema unificatore della fede Cristina. Si colloca a fianco degli altri simboli dominanti del Cristianesimo, il Pesce, il Ramoscello d’Ulivo, la Colomba e il Pane ma diventa quello predominante. La Croce ha due significati nella storia, l’uno l’opposto all’altro. Prima, dal 200 a.C. circa, è il simbolo della morte più atroce, la morte conferita dai romani ai ladri, ai briganti, a quelli che meno contano nella società. Poi,con la morte di Gesù Cristo, diviene il più alto e maestoso simbolo di amore, di salvezza, di sacrificio per un bene più grande. I due significati si scontrano in un momento, quello storico della crocefissione di Gesù,figlio di Dio . E’ li, in quell’istante che la croce, da oggetto di tortura diventa simbolo. Da Strumento di morte, diventa Segno di Vita. Questo Simbolo è cambiato nel tempo. Inizialmente, durante il periodo di clandestinità del Cristianesimo è una piccola “tau” e viene apposta nelle catacombe, dove venivano celebrate le prime messe, in mezzo al nome del defunto. Diviene Simbolo riconosciuto solo molto tempo dopo, quando nel 313 d.C., con un editto, l’Imperatore romano Costantino I, dà al Cristianesimo uno status giuridico, lo rende, per così dire, legale. Da questo momento la croce esce dalle catacombe e diviene sempre più nota in Europa. Ci vogliono altri quattrocento anni perché la Croce divenga Crocefisso, con l’apposizione del corpo del Cristo morente, ad indicare insieme la sofferenza e la liberazione, il dolore e l’amore. Da allora, quindi da quasi duemila anni, il Crocefisso divenne perenne Simbolo del Cristianesimo e raffigurato in migliaia di modi dai più grandi artisti della storia. Da allora la figura di Gesù Cristo in croce è tra le immagini più diffuse sul pianeta, ma non da tutti accettata. Alcune religioni infatti ne criticano la presenza nei luoghi pubblici, come le aule di scuola, ma non ne contestano la valenza storico-religiosa. Perché? Sia la religione ebraica che quella islamica, che non adottano l’iconografia del crocifisso considerano Gesù Cristo un grande profeta. Queste religioni non discutono sulla valenza del messaggio portato da Cristo, messaggio nuovo di amore, fratellanza, benevolenza verso il prossimo, ma sul suo essere figlio di Dio. L’islam lo considera perfino il più grande profeta prima dell’avvento di Maometto. Di per se quindi, non considerando per un attimo la Divinità che la religione Cristiana attribuisce a Gesù Cristo, il suo messaggio è comunque un messaggio apprezzato, nuovo, rivoluzionario. Attestato questo, cioè l’importanza di Gesù Cristo come Profeta, fondamentale allora come oggi, e del suo messaggio, inscindibile dal gesto finale di morte in Croce per la salvezza dell’Uomo, nessuno può contestare il Simbolo che deriva da tutto questo, ovvero il Crocefisso. Esso rimane Simbolo incontrastato di amore. E’ un messaggio fondamentale per tutta l’Umanità che forse, sarebbe meglio entrasse in modo più attento e costante nella morale che va formandosi nei giovani di oggi. Ancor prima che appeso in aula, sarebbe meglio che tornasse ad essere appeso nelle case.

Giacomo

"C'est une Révolte?" "Non, Sire, c'est une révolution"

Fragole e sangue. La rivoluzione. L’occupazione non c’entra, le parole vuote neanche. E' la rivoluzione contro l'ordine costituito delle cose, contro un modo di pensare e quindi un modo di agire. E’ decidere che non va. Decidere e svoltare. Appartiene ad un solo gruppo sociale, quello dei giovani che non ci stanno più, che vogliono cambiamento. Il più delle volte purtroppo è rivolta simbolica, fatta di filosofi reazionari, gesti, parole, proclami ad alta voce. Solo aria. Altre volte si incarna in un luogo, il luogo dell’insurrezione, della sovversione, della manìa, della catarsi, della liberazione. E' la solidificazione di un ideale, la struttura reale di un pensiero. E' un luogo fisico, materiale, empirico. Quel posto dove chiunque si sente libero di fare qualunque cosa. Un rifugio. Dove qualunque cosa è lecita, almeno per chi la fa. Dove tutto è subito, MA le conseguenze non vengono occultate alla mente, che crede di poter tutto. Senza limiti ne freni. E' luogo di vita vera. O meglio è il luogo dove si vivono più a fondo le esperienza umane. Dove tutto è al massimo, tutto è sfrenato, tutto è eccesso. A volte ci sono l'ebrezza più stonante, la musica più psichedelica, le luci più accecanti, le sigarette più nebbiose, le urla più stridenti, le parole più taglienti, le risa più divertite, le espressioni più folli, gli occhi più sballati, le mani più veloci, i ritmi più serrati. A volte ci sono musica tranquilla, parole LIBERE, pensieri in volo. Come quando, durante il lungo viaggio attraverso l'America Carlo Marx e Sal Paradise sedevano sul letto e parlavano per ore, cambiando argomento ogni volta che gli andava, saltando dalla religione alla pittura, dal sesso all’odore del parco la domenica mattina. Un posto così esiste solo per chi lo sa creare, per chi sa concretizzare questi che sono tutti stati d'animo interiori, che difficilmente nella realtà castrata della vita vengono fuori, che mai sono spronati, che mai sono accettati. Bisogna essere bravi, bisogna creare armonia tra persone e persone e tra persone e ambiente. Bisogna volerlo,e dopo, dopo averlo voluto lasciarsi andare e provare. LA LIBERTA’ è nostra se ce la prendiamo. Un volo ad ali spiegate di qualche ora. Come uno shot di vodka. Come un trip di lsd. Come una notte di sesso infinita. Come un esplosione. Come un lampo. Veloce, potente, totalizzante. Il massimo del casino, il massimo del silenzio. Il massimo della dolcezza e il massimo della violenza. Fragole e sangue. MA NIENTE DI TUTTO QUESTO SERVE SENZA L’ELEMENTO QUALIFICANTE DI TUTTO. LA RAGIONE. Bisogna essere vivi, sentirsi vivi. Bisogna essere veri. Per avere la forza di cambiare, bisogna essere già in grado di conoscere se stessi. La rivoluzione parte da dentro ed è totalmente, totalmente razionale. E’ sbagliato credere che sia una questione di invasamento, di allucinazione, di semplicistica voglia di rumore. E’ pura e semplice ricerca della verità. E questa non si trova a mente annebbiata. La Verità si ritrova sempre nella semplicità, mai nella confusione (Isaac Newton), ma questo non implica che in un momento di assenza di verità, per trovarla, non si debba creare un po’ di confusione. Far vedere, come si diceva, che siamo VIVI. E’ questo il punto focale, il nodo centrale, la base di tutto. Rendere noto che c’è chi non ci sta. Non solo a parole, quelle arrivano solo ad un certo punto purtroppo. MA con i fatti. Una delle meravigliose conclusioni a cui giunge Chris McCandless verso la fine del suo viaggio, e quindi della sua vita è che se si vuole qualcosa di vero, BASTA ALLUNGARE LA MANO E PRENDERSELO.

“A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d'artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno «Oooooh!»”
(On the road, Jack Kerouac)

Buonanotte.
Jack